PROGETTO DI COOPERAZIONE NAZIONALE

P-ART: Una pietra sopra l’altra – Un’arte da custodire

PUNTI DI VISTA
interviste su esperienze opinioni prospettive
album di vita quotidiana

Gruppo di lavoro:
Dott.ssa
Cristina Melazzi
Associazione Gruppo Muratori
e Amici di Ca’ Martì

I racconti di figure professionali attive sul territorio non direttamente coinvolte sulla tematica delle lavorazioni tradizionali in pietra a secco.

Ruggero Meles

Ruggero Meles

Nel corso di innumerevoli uscite in bassa, media e alta montagna mi è capitato di notare, quasi sistematicamente, tali opere in pietra. In alcuni casi (le casote ad es.) è impossibile non apprezzare l’antica maestria nel creare volte con grandi pietre, spesso erratiche, mi viene inoltre spontaneo chiedermi a quando risalgono. Per quanto riguarda i muretti a secco invece è evidente data la loro grandissima diffusione, che fossero la normalità del modo di costruire e che fossero già il risultato di una lunga ricerca sulle migliori pratiche di costruzione di muri di contenimento in ambiente montano. Per quanto riguarda gli acciottolati la situazione è ormai drammatica, gran parte dei sentieri storici della provincia lecchese (ma questo vale anche per altre province) sono ormai abbandonati in balia di fuoristrada, moto, e-bike, bike muscolari. Ad aggravare la tragica situazione di degrado contribuiscono i sempre più frequenti eventi climatici di straordinaria violenza. Si sta perdendo la coscienza storica dei solchi incisi sulle pietre da secoli di passaggi di slitte, traini, carri che hanno trasportato legname, fieno, castagne …un esempio per tutti la meravigliosa strada acciottolata e gradinata che porta da Bonacina (zona Sant’Egidio) a Versasio che sta cadendo in pezzi e in parte è già stata trascinata via dalla furia dei temporali. Era uno dei sentieri fondamentali per l’economia dei secoli scorsi e le pietre scavate in profondità ne indicano il grande utilizzo per trasportare merci essenziali alla vita della città. Probabilmente di lì sono passate mandrie e greggi per piccole o grandi transumanze. Quel sentiero, così come quello che porta da Versasio alla frazione di Costa andrebbero non solo salvati, ma studiati, interpretati e presentati come arterie esemplari della vita economica della città di Lecco che non è sempre stata centrata su ferro e officine, ma ha un più antico passato fatto di latte, legna, pietre da costruzione, malte, carbon fossile, e perché no? Accesso alla montagna come riserva di cibo selvatico… invece questi sentieri stanno disfacendosi sacrificati alla logica della montagna come parco-giochi dei cittadini e non ricordata come nutrice e balia degli abitanti della pianura.

Finalmente si sta cominciando a porre attenzione alla manutenzione di queste opere murarie a secco, mentre per i sentieri acciottolati si fa ancora poco! Da qui in avanti la necessità di riprendere tali tecniche per restaurare antichi manufatti o per costruirne di nuovi deve essere implementata così come tutti gli studi che ne raccontano il ruolo e la tecnica. È una questione di bellezza e di praticità, estetica ed etica. Andrebbero posti cartelli in grado di far capire ai tanti Achille Piè Veloce, che li sorvolano correndo o elettro-pedalando che storia hanno alle spalle e cosa stanno calpestando. A quali loro antenati sono appartenuti i piedi nudi o costretti in zoccoli di legno che hanno percorso questi sentieri. Siamo i discendenti delle mani sapienti che hanno costruito i muri a secco. Hanno resistito per secoli, più di tanti muri in cattivo cemento e mostrano tutta la loro bellezza, rendono evidente la loro origine ed esplicitano le ragioni della loro edificazione.

foto Fabio Baio

foto Fabio Baio

Lavorando come geologo in una zona collinare (la Valle San Martino) è successo di intervenire in situazioni di dissesto o in interventi edilizi che poi hanno interagito/interferito con opere in pietra o terrazzamenti. I terrazzamenti usati nel passato per rendere “lavorabili” i pendii ottenendo “strisce-corridoi” di terreno pianeggiante alternati a tratti ripidi, hanno nei secoli modellato il territorio. L’attenzione avuta da chi ha realizzato questi manufatti è di garantire il deflusso delle acque (rispettato!) e nel non eccedere con l’altezza del tratto inclinato di collegamento (calibrato anche in relazione alle caratteristiche geotecniche del terreno). Qualche volta, dove gli spazi sono più preziosi per “risparmiare” spazio il tratto ripido è sostituito da un muretto a secco. La manutenzione dei muretti è essenziale: una volta era gestita rapidamente da … chiunque, adesso un muretto crollato innesca la ricerca del “responsabile” della sua gestione e a volte prende mesi anni.

Ovviamente ci sono molte iniziative positive: tutte ovviamente, sia a livello di sensibilizzazione, valorizzazione e corsi di formazione. Non solo, bisognerebbe anche evolvere dalla “filosofia” dell’emergenza a quella della gestione ordinaria. Certi eventi (es frana di val Pola in Valtellina 1987) non sono ricollegabili o imputabili alla “piccola” gestione del territorio: le frane sono il meccanismo naturale che porta evoluzione dei versanti da una situazione di elevata pendenza a una situazione pianeggiante o comunque a più bassa pendenza.

Però invece, tantissimi dissesti si determinano per la scarsa manutenzione del territorio e un economista esperto dovrebbe cimentarsi nella valutazione se costino meno alla collettività i finanziamenti “spot” a disastri avvenuti, piuttosto che un’azione sistematica e capillare di “manutentori” del territorio… E la situazione oggi va nel senso contrario (sulle strade i cantonieri che gestivano le piccole manutenzioni sono spariti…) e si corre sui disastri.

foto Angelo Gandolfi

foto Angelo Gandolfi

Ho avuto l’opportunità di svolgere funzioni istituzionali nel governo locale, dove la cura del territorio e le trasformazioni del paesaggio, sia antropizzato che naturalistico, mi competevano.

Devo confessare che il ricorso alle lavorazioni tradizionali in pietra e legno è sempre stato assai faticoso, sia dal punto di vista economico ma ancor di più culturale.

Nella fase progettuale non è infrequente si ingaggi un confronto serrato tra i desiderata dell’amministratore, che ha introiettato e idealizzato i manufatti dell’arco alpino, le croniche ristrettezze di bilancio e una certa pigrizia tecnico/progettuale.

Il più delle volte ne consegue una mediazione al ribasso, sintetizzabile in: “posiziono i casseri faccio una gettata di calcestruzzo e via”.

Per decenni questo è avvenuto, anche là dove l’habitat naturalistico richiedeva quegli interventi di restauro paesaggistico, come indicato con lungimiranza dalla Costituzione (art. 9), per non snaturarne l’identità.

In Valle San Martino, al pari di altre comparabili realtà, al declino dell’agricoltura, che aveva nella cura dei terrazzamenti un preciso interesse economico, ha visto questi erodersi o, meglio ancora, essere colonizzati da boschi spontanei di essenze infestanti.

Addio colline tondeggianti cesellate da linee orizzontali ordinate degradanti al piano, direbbe ora il Manzoni.

Mi è capitato di occuparmi di queste tematiche anche da un altro punto di vista, di poco conto come entità numerica, ma emblematiche del tempo nostro.

Come ripristinare l’acciottolato di un vicolo in un vecchio nucleo di media collina, o montano, e far sì che non rappresenti una barriera architettonica per persone non deambulanti, in carrozzina?

Non sono un professionista e, inoltre, non ci sono soluzioni univoche.

Mi permetto solo di ribadire un metodo di approccio. Una progettazione di buona qualità da condurre in stretta sinergia con la committenza e gli stakeholder dei vari soggetti coinvolti.

Il riconoscimento dell’UNESCO ha rappresentato un volano planetario per la cura e il rilancio di queste tecniche costruttive, da sempre sostenute da quelle realtà territoriali che hanno saputo nel corso dei secoli resistere al richiamo di interventi estranei al contesto.

Mi permetto condividere una visione. La cura di un muro di pietra a secco è come “coltivare” un terreno affinché dal suo seno germogli e si sviluppi un suo prolungamento verticale, che sarà il santuario per colonie di piccola flora e rifugi per ramarri, oltre a tutte le funzioni ingegneristiche sopra richiamate.

A mio parere tutte le attività per incentivare queste pratiche sono utili e necessarie: alcune lo sono di più.

In primo luogo, la crescita di consapevolezza dei committenti, pubblici e privati che siano, nei confronti di queste buone pratiche, perché checché se ne dica ogni terreno ha un proprietario con il potere decisionale.

La seconda, avere il coraggio di vincolare al ricorso di queste pratiche le maggiori risorse economiche investite nelle opere ingegneristiche destinate al consolidamento dei suoli in ambito naturalistico.

La terza, formare le professionalità che dovranno mettere in cantiere gli interventi, curando tutti i tratti della filiera: dal pianificatore/progettista sino alle mani che sollevano il sasso per metterlo a dimora.

foto Cinzia Mauri

foto Cinzia Mauri

Io lavoro nell’ambito della conservazione di beni culturali e ambientali, in particolare nel restauro di beni culturali e artistici: affreschi, dipinti murali, facciate di edifici religiosi e storici. Ho lavorato in castelli, grandi dimore storiche, chiese, abbazie, santuari, piccoli oratori, cappellette, piccole santelle, cimiteri e cascine e durante la mia esperienza, la cosa che nel tempo ho introiettato è che i beni artistici non sono e non devono essere delle manifestazioni isolate dal territorio, ma sono opere che sono nate dialogando con l’ambiente che le circonda, con il paesaggio montano e collinare, con l’ambiente di pianura, con la campagna o con l’ambiente urbano in cui sono inserite e devono continuare a farlo.

Sono inserite nel territorio perché sono realizzate con il materiale presente in quello specifico territorio e per questo si armonizzano con lo stesso. Ho imparato anche che quelle opere sono figlie di un loro tempo e frutto di antichi saperi che hanno permesso che giungessero fino a noi: dove cavare la pietra e la sabbia, come spegnere ed invecchiare la calce, dove tagliare e come invecchiare il legname, come costruire con pietre e mattoni, come stendere la calce, quali pigmenti utilizzare.

Antichi saperi e materiali locali utilizzati negli stessi anni per altre costruzioni che hanno permesso all’uomo che abitava quei luoghi di spostarsi e di coltivare il cibo necessario.

Nel corso della mia attività lavorativa e non, mi sono imbattuta in questo tipo di manufatti che fanno parte dell’ambiente costruito e che si inseriscono a pieno titolo nei beni ambientali: i muretti a secco e gli acciottolati. Piccole e grandi opere che disegnano e definiscono il territorio determinando una tipologia di paesaggio nuovo e nuovi habitat naturali. Un paesaggio nato da bisogni primari, frutto di un’interazione tra ambiente naturale e uomo, dove quest’ultimo esercitando i saperi e le conoscenze di cui si parlava sopra, utilizzando materiali che il territorio gli offre, agisce nel tempo modellando colline e montagne con cura, attenzione e lungimiranza, tenendo conto di aspetti idrogeologici, naturalistici e paesaggistici.

Penso sia molto positivo il riconoscimento dell’UNESCO che va a rafforzare quanto presente nell’art. 9 della Costituzione italiana: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali.”

La salvaguardia, la manutenzione e il ripristino (dopo aver fatto uno studio relativo alle tecniche e ai materiali) dei muretti a secco, degli acciottolati di antichi sentieri e mulattiere è importante perché, oltre a non far andar perse le conoscenze immateriali che altri uomini prima di noi hanno elaborato per rispondere a domande ed esigenze ancora attuali (nuovi terreni da coltivare, spostamenti, salvaguardia idrogeologica del territorio), permette che non vadano perdute testimonianze che hanno richiesto anni di lavoro manuale e di cura del territorio e che non vada perduto quel tipo di paesaggio in cui noi ancora viviamo, anche se per diversi anni ci siamo allontanati dalle ragioni che lo hanno prodotto.

Ora, in questa nuova era contraddistinta dai cambiamenti ambientali, dai grandi problemi idrogeologici, dalla crisi energetica ed alimentare, in cui nuove esigenze di una vita più lenta, maggiormente a contatto con la natura vengono avanti, si rende evidente come la salvaguardia, la manutenzione e il ripristino di questi manufatti sia importante: oltre che per la loro straordinaria bellezza intrinseca ed importanza culturale, per la loro utilità a livello agricolo e turistico. Se i territori, oltre che lo Stato, sapranno leggere questo momento e capiranno che anche questi interventi insistono nell’ambito della transizione ecologica, supportandoli e supportando il ritorno a piccole economie locali, penso possa essere una nuova opportunità.

Francesco Mazzeo

Francesco Mazzeo

L’attenzione verso le lavorazioni tradizionali in pietra a secco attiene alla loro centralità, sia nelle azioni volte alla salvaguardia del paesaggio, sia in quelle della tutela idrogeologica dei versanti. Per chi si è occupato, o si occupa ancora di questi problemi, è abbastanza difficile sfuggire a questo tema, essendo questi manufatti elementi costitutivi tanto del paesaggio agrario e forestale di versante, quanto dell’interesse per la sua conservazione. L’esperienza che rimanda a questi manufatti si inserisce nell’attività di gestione amministrativa, all’epoca in capo alla Provincia, delle misure agro ambientali finanziate nell’ambito della Politica agricola comune (Pac) e del Piano di sviluppo rurale (Psr) in particolare. Ma deriva, anche, da un’azione di ricognizione e di studio del paesaggio agrario lecchese, nell’ambito del progetto “L’agricoltura, i segni e le forme. Progetto per la valorizzazione del paesaggio agrario lecchese”, che la provincia elaborò e realizzò a partire dal 2003-2004.

Riguardo al Psr, la manutenzione e la ricostruzione di muretti in pietra a secco rientravano fra le azioni finanziabili dalla misura riguardante l’agroambiente. Per l’esperienza maturata, essa ha avuto scarso interesse nella zona di montagna, mentre è stata maggiormente richiesta in collina, probabilmente per la ragione che in quest’ultima area l’interesse alla ricostruzione del paesaggio e al suo mantenimento era maggiormente e direttamente connesso da un lato allo sfruttamento economico a fini turistico-ricreativi degli spazi aziendali, e dall’altro, alla valorizzazione agronomica, prevalentemente con coltivazioni vitivinicole e florovivaistiche dei terreni aziendali, e non ultimo alla loro valorizzazione fondiaria. Nelle zone di montagna, invece, la causa del minore interesse potrebbe essere dovuta ad una serie di fattori, fra cui la minore redditività dell’attività agricola che giustificasse e sostenesse, sia pure con l’aiuto pubblico, i costi di manutenzione e recupero; i costi di intervento rilevanti, essendo perlopiù tanti di questi manufatti in aree ormai guadagnate dal bosco; inoltre, ritengo non estranea l’insufficienza di un progetto territoriale che localmente indirizzasse il recupero di questi manufatti e orientasse le azioni di valorizzazione in forma economicamente redditizia.

A quest’ultimo aspetto ha tentato di dare qualche risposta il progetto provinciale sul paesaggio agrario ricordato, che era finalizzato a implementare il quadro conoscitivo del paesaggio agrario e a formulare linee guida per la sua valorizzazione, che portò a identificare numerose tipologie paesaggistiche presenti nel territorio provinciale e diversi ambiti omogenei per tipologia. La ricognizione evidenziò almeno quattro tipologie paesaggistiche che riguardavano il terrazzamento del territorio, dislocate tanto in riva al lago, quanto nella porzione collinare briantea.

Infine, in conseguenza della prima fase di studio, prese avvio una seconda fase, che aveva l’obiettivo di individuare forme di utilizzazione del paesaggio agrario congruenti con i caratteri paesistico-ambientali, legate soprattutto alla fruizione turistico-ricreativa del paesaggio, integrandolo nell’economia dell’impresa agricola. Perciò furono individuati specifici percorsi in varie località della provincia e l’esito di tale lavoro fu offerto agli operatori, nella prospettiva della loro concreta attivazione.

La crescente consapevolezza che l’abbandono del territorio e di tutte quelle opere che in passato sono state capisaldi della costruzione non solo del paesaggio che ne è derivato, ma soprattutto dell’incremento della stabilità del suolo e dei versanti nelle aree acclivi e, conseguentemente, insieme alla prevenzione, dell’aumento della sicurezza idrogeologica e della difesa delle infrastrutture e della popolazione, porta alla crescente rivalutazione di pratiche tradizionali che si sono rivelate nel tempo più resilienti, più adattabili a specifiche esigenze locali e meglio collocabili in uno scenario gestionale sostenibile e integrato con l’economia del territorio. Tuttavia, una loro maggiore considerazione su una scala territoriale che non sia quella micro-locale necessita di un cambio di paradigma ambientale ed economico che, sebbene prefigurato a più livelli, non mi pare essere ancora tra le prospettive concrete di breve o medio termine.

Perciò penso che, benché cresca la consapevolezza della necessità di fare qualcosa per salvaguardare l’ambiente, la sua qualità e i suoi equilibri, poiché è sempre più chiara la sensazione diffusa che riguardo, ad esempio, il consumo di energia e di materia «Siamo su un treno che va a trecento chilometri all’ora, non sappiamo dove ci sta portando e, soprattutto, ci siamo accorti che non c’è il macchinista», per dirla con il Nobel per la fisica Carlo Rubbia, nel medio termine e nonostante la transizione ecologica di cui tanto si parla, non ritengo verranno messi in atto concretamente strumenti e azioni che possano determinare un vero cambio di direzione. Ciononostante, ad esempio, ritengo non siano da sottovalutare quegli interventi che, seppure solo formalisticamente e parzialmente, corrispondono a “finte opere in pietra a secco” (mi riferisco, ad esempio, all’uso relativamente frequente di paramenti in pietra, con fughe profonde, di opere cementizie, con funzione perlopiù paesaggistica), i quali possono contribuire ad aumentare la conoscenza e la consapevolezza sociale del recupero e della diffusione di tecniche e materiali tradizionali. In questa ottica, che definirei della prospettiva della “transizione”, penso sia assolutamente indispensabile continuare a discutere, divulgare formare tecnici e maestranze capaci di utilizzare materiali locali e tecniche tradizionali e mantenere vivo l’interesse per essi, poiché dove localmente si riscontrano le condizioni adatte, tali tecniche possono diventare praticabili anche nel breve periodo. Fra le condizioni riscontrabili, ad esempio, penso alla ripresa dell’attività agricola su terreni in precedenza abbandonati, dove si perseguono forme di agricoltura maggiormente integrate nel territorio. Questo inevitabilmente avrebbe effetti anche nell’ambito della salvaguardia idrogeologica e paesaggistica, ma se considerato non integrato alla gestione agroforestale del territorio, sarebbe di più difficile mantenimento, poiché l’attività agroforestale avrebbe come effetto secondario proprio la manutenzione continua e diffusa del territorio e delle piccole opere in esso presenti.

foto Mauro Bonfanti

foto Mauro Bonfanti

Nel corso della mia attività professionale l’incontro con la tematica delle lavorazioni tradizionali in pietra a secco è stato marginale. Purtroppo, non ho avuto il piacere e la possibilità di approfondire queste tecniche costruttive.

Ho avuto una esperienza significativa nel progetto e direzione lavori della Piazza San Giorgio di Valgreghentino, redatto con l’Architetto Maria Grazia Furlani, dove la pavimentazione della piazza e delle strade che dalla stessa si diramano, sono state realizzate in acciottolato, posato su letto di sabbia, senza presenza di cemento.

Per questo acciottolato sono stati usati ciottoli più grossi con forma allungata, rispetto a quelli normalmente usati dai moderni posatori. Questa scelta tecnica ricalca le modalità costruttive delle pavimentazioni stradali ottocentesche e dei primi decenni del ‘900 in uso nei centri storici delle città italiane. L’alto spessore dei ciottoli serve per garantire maggiore stabilità alla pavimentazione ed evitare che gli stessi siano divelti dall’attrito delle ruote degli autoveicoli in transito.

Il sagrato antistante la chiesa, i marciapiedi, le cordonature e alcune pavimentazioni, realizzate in pietra con taglio a finitura a piano sega, sono state invece posate con malta su sottostante massetto in calcestruzzo.

Negli anni Settanta, in un terreno agricolo di mia madre a Monte Marenzo, a causa della caduta di una parte scoscesa di un terreno, era stato realizzato un muro a secco, recuperando pietre in loco. L’esecutore, mi sembra un abitante della Frazione Levata, un contadino proveniente dal Sud d’Italia, aveva realizzato questo muro di sostegno con estrema abilità e velocità. Nel Sud Italia questa cultura e tradizione locale si è mantenuta e penso lo sia tuttora.

Questo muro, alla cui costruzione potei assistere, è tuttora visibile ed in buone condizioni statiche.

Nel 1980/81 ho operato in prima persona per riportare alla luce un tratto di strada comunale che da Monte Marenzo porta alla Frazione Levata: un antico acciottolato che era da anni ricoperto di terra e sabbia.

Il lavoro, effettuato con l’aiuto di due maestranze, è consistito nella semplice rimozione di questa massicciata che naturalmente, per mancanza di manutenzione, si era formata sopra l’antico acciottolato. Abbiamo usato semplicemente zappa, piccone e badile, scopa metallica e di saggina per la pulitura finale.

Ho potuto ammirare questa pavimentazione solamente per poco tempo. Infatti, nel 1984, per la posa della condotta del metano, nonostante le mie inutili proteste, la strada in acciottolato è stata distrutta.

Attualmente ho un confronto indiretto con questo tema all’interno di una Commissione Paesaggistica Comunale, come in precedenza nella Commissione Paesaggistica del Parco del Monte Barro.

Nelle sedute delle Commissioni esaminiamo richieste di autorizzazioni per ristrutturare edifici storici o antichi. Dalla documentazione fotografica allegata alle pratiche si vedono spesso pavimentazioni e muri in pietra a secco.

Sovente molti progettisti non percepiscono il significato ed il valore di questi manufatti, non prestandovi la dovuta attenzione, prevedendone la demolizione o rimozione, riproponendo tipologie decisamente incoerenti, di minore bellezza e di minor valore storico/culturale.

Purtroppo, nonostante il recente riconoscimento dell’UNESCO, questa sensibilità non è ancora assimilata da parte degli operatori edili (progettisti e imprenditori) e dagli stessi committenti.

In Commissione Paesaggio, invece, l’attenzione e la sensibilità al riguardo sono molto maggiori e viene prescritto il mantenimento di questi manufatti, nonostante in alcuni casi si incontri la recalcitrante resistenza di progettisti e committenti.

Questo tipo di manufatti, oltre all’interesse professionale, mi ha sempre provocato emozioni. Riscontro opere di grande semplicità e allo stesso tempo manufatti molto raffinati, entrambi di grande bellezza.

Ho visto interi edifici di modeste dimensioni, prevalentemente ad uso agricolo in zone montane, costruiti totalmente in pietra a secco, muri in elevazione, tetto con elevata pendenza e manto di copertura in piode di grosso spessore. L’abilità di quei costruttori sembrerebbe non avere limiti.

Album di vita quotidiana

Le cartoline e le foto d’epoca, le immagini di anni addietro riprodotte nei volumi dedicati ai singoli paesi o al territorio, dicono bene come il paesaggio costruito, agricolo ma anche abitativo, fosse disseminato ovunque da muri a secco, selciati ed altri manufatti di pietra lavorata.
Questi elementi fanno da cornice anche ai più ‘formali’ ritratti, del resto molto rari, dell’intera famiglia in posa, per lo più ripresa all’aperto, oppure agli scorci di paesaggio quotidiano che si spedivano come cartoline del ‘bel paese’ ai migranti o ai parenti di città da parte di villeggianti.
L’incrocio sapiente e casuale delle vie e dei loro contorni pietrosi, appare nelle foto storiche come una quinta da sceneggiato d’epoca animata dai passanti nelle consuete occupazioni.

L’acciottolato fa bella mostra di sé nei sagrati delle Chiese e fa da sfondo non solo a tante immagini rurali ma anche alle foto di gruppo di coscritti, di avvenimenti pubblici quali commemorazioni e inaugurazioni, processioni e funerali, sfilate di bande e festeggiamenti, eventi privati e familiari come un battesimo o un matrimonio.
Selciato e muretti compaiono spesso in pubblicazioni o studi locali degli ultimi decenni, che invitano a individuare, di un paese o di un territorio, scorci interessanti e ‘caratteristici’, tracce di storia.

Per chi abitava nelle zone alte della Valle, una consuetudine molto funzionale, confermata da testimonianze femminili e non solo (in realtà diffusa anche altrove), prevedeva il cambio di calzature nel passaggio dalla mulattiera acciottolata alla strada sterrata o asfaltata del paese in Valle.
Le zibrète o gli zoccoli, benedette e maledette calzature onnipresenti in ambito rurale, indossate partendo da casa, si sfilavano dai piedi a fine sentiero, nascondendoli in uno degli anfratti che proprio i muretti a secco offrivano, dando così la possibilità di sostituirli con le scarpe portate con sé, bene raro e prezioso, per muoversi a fondovalle, nel centro cittadino. Al ritorno verso casa, lo scambio.
La medesima testimone, Camilla Colombo di Lorentino (n.1927), racconta della capacità, da parte delle giovani donne che con lei percorrevano quel tragitto per lavoro o verso il mercato, di trasformare, con l’immaginazione, una situazione reale ben poco accogliente, in qualcosa di più confortevole. Come nelle fiabe, un grosso sasso a lato del sentiero diventava l’Albergo del riposo (“lo chiamavamo così”), capace di offrire una seduta per un momento di sosta tanto sospirata o uno scambio di chiacchiere.

Su tutt’altro piano, un’osservazione di particolare interesse etnografico, va dedicata alla presenza, in passato, di un affresco o immagine devozionale, lungo il percorso, noto come “Madonina che plòca”: poiché plòch è un termine dialettale che indica sasso, risulta chiara l’azione attribuita, secondo tradizione, a questa Madonnina!
Va sottolineato come una figura di devozione, normalmente protettiva, assuma qui un ruolo punitivo o quanto meno moralistico: secondo alcuni, la Madonnina se la poteva prendere con le giovani coppie che si appartavano lungo la strada.
I sassi stessi, elemento per molti versi così ‘familiare’ e addomesticabile, qui diventano così una ‘minaccia’: ciò che può succedere come incidente casuale, ossia il distacco o la caduta improvvisa di una pietra sul percorso, si trasforma in un intervento magico, a metà tra il ‘divino’ e l’animistico.
Con una duplice funzione: richiamare la dovuta attenzione su un rischio concreto ma, insieme, rendere più ‘abitata’ la strada (percorsa anche nelle ore antelucane e in quelle serali) e invogliare, specialmente i più giovani e meno provveduti, ad accelerare il passo.
Ad un simile scopo ammonitorio (valido come avvertimento sulla possibile presenza di vipere tra i sassi, e come dissuasore da furti di frutta…) poteva rispondere un’altra credenza, diffusa nell’intera Valle ed oltre, in forma di leggenda o di storia ‘vera’: quella del Bés Gatòbe.

Incerti confini tra immaginario e realtà si trovano in una delle storie di tradizione orale conosciute ed ambientate nel territorio tra Valmadrera e Civate, annoverabili tra le ‘storie di paura’ o ‘storie di streghe’. Il testo è pubblicato, nella versione dialettale e nella trasposizione italiana, nel volume “Fiabe e altre storie ascoltate in Brianza”, di Massimo Pirovano (Quaderni di Etnografia n.8, Museo Etnografico dell’Alta Brianza, 2021, pp 300/302).
Nel patrimonio folklorico, le fiabe occupano un posto importante ma non facilmente documentabile per il ricercatore, perché, come le ninnenanne, rivestono, per molti testimoni, una valenza ‘privata’, da custodire. Tanto più, quindi, risulta interessante questo documento, che citiamo perché l’ambientazione della vicenda chiama in causa la presenza di caratteristiche costruzioni in pietra a secco, spesso ampliamenti di grotte preesistenti: le caśòte, non del tutto scomparse, come avevo appurato per la stesura della scheda di corredo, sono oggi inserite in percorsi turistici. Diffuse nella zona collinare e montana tra Civate e Valmadrera, fuori paese, avevano funzione di ricovero attrezzi e riparo d’emergenza.
L’evento narrato (di cui riportiamo la prima parte) accade in sorte ad un contadino, sorpreso da un forte temporale, costretto a ripararsi nottetempo proprio in una di queste caśòte, presso una località detta Prato Balanzone. Come sempre, il racconto dai contorni fantastici rivela elementi di un’esperienza realistica: in questo caso, anche l’importante funzione assegnata al rustico manufatto.

Ci sono immagini d’epoca che illustrano plasticamente la trasformazione delle pietre in ‘oggetto devozionale’. Ad esempio i credenti percorrevano in ginocchio una scala in sassi per un voto, per una penitenza, per un’intercessione: così la Scala Santa del Santuario di Somasca; oppure la ripidissima Scala Santa (attorniata da muretti a secco di recentissimo rifacimento) che si trova ad Airuno, presso il santuario della Rocchetta; la scala di 174 gradini che conduce al Santuario del Curone; la lunga scalinata che conduce alla Madonna del Bosco presso Imbersago, a tutt’oggi molto frequentata.
Proprio tra gli ex voto conservati presso quest’ultimo luogo di culto, si trova la testimonianza di uno dei molti incidenti in cui poteva incorrere chi lavorasse con le pietre, qui, si desume, per la costruzione di un ponte: la data riportata è il 1855.

Volendo trattare di vita di comunità, almeno un cenno va dedicato a un tema irrinunciabile come quello dell’infanzia, protagonista del contesto sociale in ogni epoca.
Anche per i più piccoli, il rapporto con l’ambiente naturale, familiare e socioeconomico condizionava abitudini e comportamenti, compresa naturalmente l’attività infantile per eccellenza: il gioco.
“La prima condizione per poter realizzare i giochi, ma anche tutte le altre attività, era, fino agli anni Sessanta del ‘900, la disponibilità ‘naturale’ della materia prima”, scrive Carlo Zoldan, in Giocare con le pietre.
Inevitabile che anche pietre, sassi, sassolini e quant’altro rientrassero tra i materiali alla base di attività di intrattenimento (e di preparazione alla vita adulta) dedicate da una lunga tradizione preindustriale, povera ma creativa, al mondo infantile o di volta in volta escogitate sul campo (è il caso di dire) dai bambini stessi.
Numerosi i giochi illustrati nelle pagine bellunesi, di cui sarebbe interessante cogliere i confronti con quelli, per lo più somiglianti, noti a più generazioni dei nostri territori. Numerosi e non tutti innocui: le fionde, per esempio. Ma era consueto affidare a un sasso qualunque ruolo, perfino all’interno di una favola che rimanda ad Hansel e Grethel, raccolta a Monte Marenzo, nella quale tutto comincia con un ciottolo (un bucì) che rotola casualmente in un buco del terreno.

Un significativo indizio dell’intreccio tra contesto materiale e quotidianità, nei suoi riflessi sulla vita di relazione, possiamo trovarlo non soltanto nella scelta di dare i nomi a cose, luoghi, e persone, ma perfino nel nominare ed interpretare (in un linguaggio condiviso dalle diverse “comunità di pratica”) quelle che sono regole basilari di lavorazione.
Cominciamo dai nomi. Non è rara, anche nel nostro ambito di territorio, una toponomastica di origine dialettale che richiama il paesaggio terrazzato (che ‘riga’ il monte) o caratterizzato da elementi naturali come pietre, sassi, cave, manufatti.
Ricorrono nei nostri paesi, località quali: Rigamunt Rigolalto, Rigamonte, Ronco, Ronchi, Piöda, Riva. Termine, quest’ultimo, che definisce la pendenza sottostante il piano a coltivo.
Al riguardo, una bella Guida illustrata ad itinerari del Comune di Cisano Bergamasco, al capitolo “Ronchi. Il territorio ridisegnato”18 riferisce una etimologia arcaica del termine ‘ronco’: “da ruk, voce preistorica che sottende operazioni di rottura, di scavo e dissodamento del terreno”.
Ritroviamo questi stessi nomi di luoghi assegnati anche a famiglie, tradotti cioè in cognomi, altrettanto diffusi, ancora oggi, nelle nostre zone: Rigamonti o Ripamonti, Ronchetti, Riva ed altri.
Particolarmente interessante, poi, quanto accennavamo a proposito delle norme costruttive. Sia nelle testimonianze dei nostri esperti che nel linguaggio comune alla nuova generazione di artigiani, così come in quello specifico trasmesso negli stessi Corsi di formazione, è costante l’uso di termini che associano pietre e struttura familiare.
Più precisamente: la relazione ‘buona’, utile a garantire una struttura salda del muro a secco, riflette e richiama la relazione parentale ed i ruoli assegnati ai diversi componenti per la ‘tenuta’ dell’impianto familiare.
Gianni Carsana ribadisce la regola che limita la presenza di ‘surèle’ (ossia pietre sovrapposte combaciandone le estremità) che possono rendere instabile la costruzione: due sorelle (nei muri, come in famiglia) possono stare, ma “La terza, me la marìda”, dobbiamo sposarla, con una pietra più grande che ricopra i vuoti creatisi.
Questo rimando alle “relazioni parentali e di genere, come se il muro fosse pensato nei termini di un insieme di soggetti famigliari” viene approfondito da Federica Riva in una sezione del saggio già citato, intitolata: “Pietre e muri come famiglie”.
L’interpretazione ‘umanizzata’ di rocce e sassi è evidente anche in espressioni quali “fare la testa” alla pietra, che Pino Carsana spiega mentre lavora ad un muro ad Agricollina o quando Gianni Carsana, parlando del luogo di provenienza di un trovante, dice: “Questo non è nato a Carenno”. O ancora, per illustrare la zona di presenza di una particolare tipologia di materiale lungo il sentiero della Sèrta, spiega: “Prima di trovare quel calcàre grigio, chiaro, c’è questo rosso, anche su al Colle: è la stessa vena che corre, che cammina.”